
Non conosciamo le origini dei Maruzzi campigliesi, ma sappiamo che loro si consideravano un ramo della nobile omonima famiglia veneziana. Nel “Repertorio genealogico delle famiglie confermate nobili esistenti nelle province venete”, pubblicato a Venezia nel 1830, troviamo notizie su uno dei membri di questa illustra casata, Costantino Maruzzi, figlio del cavaliere Pano Maruzzi, tenente generale al servizio russo, e della principessa Zoe Gika, dama alla corte imperiale di Pietroburgo, nato in Mosca il 16 settembre 1784, ciambellano imperiale russo e commendatore dell’ordine gerosolimitano. Di lui troviamo scritto: «nobile e marchese domiciliato in Venezia. Trae il sottonominato la sua origine da un’antica nobile famiglia greca, della quale consta che già fino dall’anno 1589 furono individui decorati colle insegne dell’Ordine Gerosolimitano. Il titolo di Marchese, di cui è decorato e che gli fu confermato con Sovrana Risoluzione 30 marzo 1819, deriva da concessione fatta dall’imperatrice Maria Teresa con Diploma 21 giugno 1764 ai fratelli Pano, Costantino e Lambro Maruzzi ed ai loro discendenti maschi primogeniti».
In un altro libro, dal titolo “Curiosità veneziane, ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia” si parla di un “calle Maruzzi”, ovvero una delle tipiche stradine veneziane intitolata a quella famiglia, situata nei dintorni della chiesa di S. Lorenzo. Secondo l’autore, fino dal 1740, la famiglia Maruzzi, originaria dell’Epiro, possedeva ed abitava il palazzo posto in quel luogo. La famiglia veneziana dei Maruzzi – che sarebbe stata tanto ricca da potersi permettere di finanziare l’imperatrice delle Russie, Caterina II – si estinse il 20 febbraio 1846 con la morte del marchese Costantino, il quale «fino dagli anni suoi giovanili, ciambellano, commendatore, uffiziale delle guardie imperiali russe, rinunziò poscia ad ogni ambizione, dedicandosi ad una vita lieta, e filantropicamente tranquilla in mezzo ai numerosi amici».
In mancanza di documenti in grado di provare l’origine comune dei Maruzzi di Campiglia e di quelli veneziani, ci limiteremo a riportare ciò che di certo si sa sulla famiglia campigliese che per secoli giocò un ruolo di primissimo piano, economicamente e politicamente, nel nostro Comune.
La famiglia Maruzzi comparve sulla scena campigliese sul finire degli anni Sessanta del Seicento. I protagonisti della prima generazione furono il trentenne Giovanni Battista (1638 c.-1678) e le sue due sorelle Camilla e Giovanna (1642 c.-1682).
Il loro padre Bartolomeo, così come anche la madre – della quale i documenti non svelano il nome – probabilmente non mise mai piede a Campiglia. La decisione di trasferirsi nel paese maremmano fu quindi presa da Giovanni Battista che, nel 1669, fece sposare la prima delle sue sorelle, Camilla, con Giovanni, figlio di un certo Niccolò di Giovanni.
L’anno seguente si sposò anche l’altra sorella, Giovanna, all’epoca considerata già in là con gli anni essendo ventottenne, la quale, per non rimanere zitella, fu costretta a prendere per marito un vedovo: Giovanni di Silvio da “La Castellina”.
Dopo aver sistemato le sorelle, il 5 ottobre 1670, toccò anche a Giovanni Battista convolare a nozze, con la sedicenne campigliese Domenica, figlia di Piero di Matteo Venturi. Lo sposo aveva quasi il doppio degli anni della giovanissima consorte e, forse, anche un precedente matrimonio alle spalle se, come probabile, il Paolo Maruzzi morto a Campiglia nel 1695 era suo figlio.
Che la famiglia Maruzzi non avesse ancora raggiunto la ricchezza e il prestigio sociale che conquisterà più avanti, lo si intuisce dalle alleanze matrimoniali che, nel Seicento, appaiono ancora modeste. I mariti di Camilla e Giovanna non hanno neanche un proprio cognome e i Venturi – la famiglia della moglie di Giovanni Battista, trapiantata a Campiglia da una ventina d’anni dal contado pistoiese – non sembrano essere imparentati con l’altro omonimo e illustre casato che in quel periodo risiede a Campiglia, del quale fa parte il dott. Francesco Venturi, cancelliere della Comunità di Campiglia, originario di Bagno di Romagna.
L’unico indizio in favore di una certa disponibilità economica dei Maruzzi sembra essere il lascito testamentario di Camilla alla Confraternita campigliese del Santissimo Sacramento, in cambio di sei messe all’anno da celebrarsi per la salvezza della sua anima.
Giovanni Battista e Domenica, in sette anni – tanto durò la loro unione – ebbero appena il tempo di mettere al mondo quattro figli: Bartolomeo (1672-1677), morto a soli cinque anni; Leonora (1674), della quale nei documenti si perdono le tracce; Agata (1676-1677), morta quando era ancora in fasce; e Piermaria (1677-1726), che non conobbe mai suo padre, scomparso prematuramente l’anno successivo alla sua nascita. Dopo la morte di Giovanni Battista, la venticinquenne Domenica si risposò a tempo di record, avendo portato il lutto soltanto per nove mesi. Dal nuovo marito – il pistoiese trapiantato a Campiglia Paolo Baldi – ebbe altri tre figli, ma la sfortuna continuò a perseguitarla e, in poco tempo, rimase nuovamente vedova. Il destino smise di accanirsi contro di lei solo quando la sua breve vita terminò, a trentadue anni, dieci giorni dopo aver perduto l’ennesima creatura in fasce, l’8 novembre 1685.
La morte di Domenica lasciò orfano anche di madre il piccolo Piermaria che, a otto anni non ancora compiuti, si ritrovò solo al mondo. Non sappiamo chi si prese cura di lui; zia Giovanna era morta tre anni prima, anche lei giovanissima, e l’altra zia, Camilla, ad un certo punto scompare dai registri campigliesi.
Ritroviamo Piermaria il giorno del suo matrimonio, il 9 febbraio 1711, quando, ormai maturo, a trentaquattro anni, ripercorrendo le orme del padre, sposò un’altra giovanissima campigliese, la diciannovenne Teresa Vincenti. La coppia ebbe due figli, Giovanni Battista (1711-1798) e Paola (1714-1747), poi Teresa morì senza arrivare ai trent’anni e così Piermaria, desideroso di allargare la famiglia, prese una nuova moglie, la campigliese Maria Maddalena Gianni – figlia di un sarto di origini livornesi – che gli dette altre due figlie: Agnese (1722-1801) e la sfortunata Teresa (1724-1725), morta in tenerissima età. A cinque mesi di distanza dalla tragica scomparsa della bambina, morì anche Piermaria, a soli quarantotto anni, lasciando la giovane moglie con una figlia piccola e due figliastri adolescenti. Maddalena, rimasta vedova a ventisei anni, si risposò con Valentino Ducci (1700-1762), originario di Bientina e castellano a Torre Nuova. La donna riuscì a sistemare nel migliore dei modi tutti i suoi figli e figliastri. Giovanni Battista, nel 1731, sposò Maria Andrea Trenti (1702-1782) di Castelnuovo Val di Cecina; Paola andò in sposa, nel 1735, al piombinese Sabatino Minelli (1711-1765), mentre Agnese diventò la moglie di Giuseppe Berti (1718-1789) nel 1743. Anche alla figlia di secondo letto, Bartolomea Ducci (1736), non andò male, avendo sposato, nel 1751, Lorenzo Maffini di Grosseto.
Fu proprio in questo periodo che il prestigio economico e sociale della famiglia Maruzzi cominciò ad aumentare notevolmente. Giovanni Battista – che nel 1777 ricoprì la carica di gonfaloniere del Comune di Campiglia – generò sette figli, quattro dei quali morirono in giovane età: Teresa (1736-1736), Iacopo (1738-1756), Teresa Maria (1742-1743) e Maria Anna (1746-1756). I tre figli sopravvissuti erano tutti maschi. Il primogenito, Piermaria (1732-1780), non si sposò mai, così come il più piccolo dei tre, Fiorenzo (1739-1806), che prese i voti diventando sacerdote. Il grosso del patrimonio passò quindi nelle mani del secondogenito, Francesco (1734-1788), che intorno al 1762 sposò la giovane Maria Giovanna Beltrami (1744 c.-1809), appartenente ad una ricca famiglia di Serrazzano inurbatasi in seguito a Volterra dove riuscì ad essere iscritta alla nobiltà locale. I due ebbero dodici figli: Teresa (1763-1776), venuta al mondo insieme ad un fratello gemello morto subito dopo la nascita; Maria Caterina (1765-1769), Giovanni (1767-1831), Tommaso Valentino (1768-1774), Caterina (1770), Giuseppe (1773-1845), Tommaso (1775-1780), Teresa (1777), Petronilla (1779-1780) Pietro Tommaso (1781) e Luigi (1783-1848). Giovanni e Giuseppe si laurearono, il primo non prese moglie, il secondo invece sposò la campigliese Caterina Dini nel 1802. Il matrimonio economicamente più vantaggioso comunque fu quello contratto nel 1806 dal minore dei figli di Francesco, Luigi, che prese in moglie Lucrezia Malfatti (1782).
Dalla loro unione nacque la generazione più intraprendente dei Maruzzi, quella che riuscì ad influenzare maggiormente le sorti della famiglia.
La primogenita fu Francesca (1806-1859), sposatasi intorno al 1835 con Vincenzo Mari (1800-1880); poi nacquero: Francesco (1808), Pietro Maria Ferdinando (1809-1813), Giovanni Battista (1811-1863), coniugato in prime nozze con Maria Deakin nel 1847 e risposatosi nel 1857 con Caterina Tozzi Pini (1821-1889), del quale parleremo più avanti; Maria Giovanna (1813-1885), sposata nel 1840 con il dott. Giuseppe Bacci (1815-1891); Pietro (1815-1875), coniugato nel 1857 con Angela Galli (1831-1909); Agnese (1817-1827), Elisabetta (1819-1882), andata in sposa nel 1844 al farmacista Fiorenzo Gallini (1815-1899); Faustina, divenuta la moglie dell’avvocato Bartolomeo Franciosi (1814-1892) e Agnese (1828), che nel 1849 aveva sposato Quintino Movizzo (1818-1904), originario di Orbetello, il quale all’epoca ricopriva la carica di aiuto cancelliere della Comunità e che, più tardi, fece carriera diventando prefetto ed esercitando in Toscana, a Livorno e a Lucca, e al Sud, in Calabria e Sicilia.
I Maruzzi sono stati una delle famiglie più ricche e più potenti di Campiglia. Hanno dominato la scena politica ed economica del campigliese, e non solo, per decine di anni, dal Granducato di Toscana fino alla Repubblica, quando hanno intrapreso la china discendente, rimanendo però nella memoria della gente.
Una memoria scritta il 26 gennaio 1943 da Francesco Maruzzi per la figlia Anna, coniugata Sbrana, ce ne dà conferma: «la nostra famiglia è di origine veneta, raggiunse la massima ricchezza e splendore dopo il 1850, per opera del mio babbo cav. dr. Giobatta e dello zio paterno cav. dr. Pietro. Fino al 1870/71, epoca nella quale il patrimonio fu cominciato a smembrare per dare la dote alle mie sorelle Lucrezia e Luisa. I fratelli Giobatta e Pietro, possedevano nella nostra Maremma, uno dei più vasti patrimoni di circa seimila ettari di terreno, dodicimila saccate circa, nei Comuni di Campiglia, Gavorrano, Massa, Piombino e Suvereto ed immobili urbani a Campiglia, Castelnuovo Val di Cecina e Massa.
I beni rustici erano costituiti dalla Tenuta del Castello di Pietra in provincia di Grosseto, di ettari 2.500 circa, nei Comuni di Campiglia, Piombino e Suvereto: le Tenute o fattorie di Montepitti, Ulceratico, Casetta di Cornia, Coltie, Guado al Lupo, Lavoriere, Campo all’Olmo, Cordon de’ Rossi, oltre i terreni boschivi di Sassogrosso, Ulivastrino, Pozzo alle Vigne, Allumiere, le Cave, Mulinaccio, Campalto, Regnadori e gli uliveti di Poderino, Serpaio, La Calata, Tutti i Venti, Castagneto di Pozzatello, Capattoli, Perelli ed altro ancora.
Molti fabbricati in Campiglia con parte del Castello e la Rocca con vasto orto, il podere Poggetto a Suvereto, parte del palazzo Malfatti in Massa, un fabbricato e castagneto a Castelnuovo Val di Cecina; di più un livello attivo a Volterra, verso la famiglia Grossi, di cui a tempo nostro nel 1875/76 era debitore il canonico Grossi. Tale livello, quando noi eravamo in collegio a Volterra, veniva sempre a noi pagato, in luogo di denari con vari ninnoli di alabastro, avendo i Grossi una vendita-galleria di tali generi.
A Campiglia avevamo una scuderia, per uso padronale, tre pariglie di cavalli, due cavalli da sella con relative carrozze, finimenti, selle, più vi erano cavalcature per il fattore Bertozzi, sottofattore Bindi, per i due guardia-boschi, due giubbe con cinque cavalli da barroccio.
A Casetta di Cornia, fattore Tognarelli, sottofattore Filoni, due stalloni di razza, cavallo e barroccino per il fattore ed altro ancora.
L’attuale Palazzo Maruzzi fu edificato, su disegno dell’architetto Galli di Pisa, tra il 1859 e il 1861, e nel vano sottostante al terrazzino, sopra il portone centrale, babbo e lo zio Pietro avrebbero voluto far mettere lo stemma di famiglia, mai a loro riuscito di avere. Ora che è trovato, gli attuali proprietari potrebbero far costruire un bassorilievo in marmo con lo stemma e farcelo collocare.
La nostra famiglia non aveva nulla da invidiare alle altre più cospicue e facoltose della nostra regione, per censo, istruzione e cultura.
Se i miei fratelli ed io ci trovammo in così tristi condizioni finanziarie, fu per colpa degli esecutori testamentari del compianto zio Pietro, i quali ci procurarono un debito di circa un milione col Monte dei Paschi, dal 1875 al 1880.
Noi si doveva pagare oltre le spese di famiglia, interessi su tale somma, in quel tempo, quando il grano costava lire 18 al quintale, la biada e l’orzo lire 9 al quintale, il vino lire 5, l’olio lire 70/80 ed il carbone lire 5 la soma.
Andarono, per la stessa ragione, in rovina i patrimoni dei conti Franceschi (padroni di Vignale e la Sdriscia ed altro ancora), del conte Mastiani e dei signori Maffei di Volterra».
Termina qui lo scritto del dottor Francesco Maruzzi, che lascia intendere come anche altre ricche e illustri famiglie del tempo finirono male per i motivi da lui ricordati.
Uno dei personaggi più prestigiosi della famiglia Maruzzi di Campiglia fu Giovanni Battista (1811-1863), celebre anche per aver sposato in seconde nozze, Caterina Tozzi Pini, la nipote dell’illuminista e avventuriero toscano di fama internazionale Filippo Mazzei.
A parlarci di Giovanni Battista Maruzzi e della sua attività è Luigi Della Fonte, professore di Agraria nell’Istituto tecnico di Modica, autore di un necrologio scritto in memoria del Maruzzi, pubblicato sul “Giornale Agrario Toscano”. Questo il testo: «La famiglia degli Agricoltori Toscani ha fatto in questi giorni una dolorosa perdita nel Cav. Dott. Giov. Battista del fu Luigi Maruzzi e di Lucrezia Malfatti di Campiglia Marittima; ed il nostro Giornale la registra col massimo cordoglio. Era nato il 13 Aprile 1811. Il di lui padre che fu, pei suoi tempi, un solerte coltivatore, ponendo ogni cura alla educazione dei figli, indirizzò Pietro alla Medicina, Francesco alle Matematiche e Giovanni Battista alla Legge. Tutti corrisposero con onore alle cure paterne, e Giovanni Battista conseguiva la laurea dottorale nel 1835 allo Ateneo Pisano, gli altri due poco d’appresso seguivano lo esempio.
In quei tempi l’Agricoltura in Maremma era molto negletta; la più gran parte della proprietà terriera era condotta a sistema di pascolo con bestiami vaganti; appena appena nelle pianure littoranee comparivano qua e là poche terre coltivate a solo grano, alternato con maggese e con riposo. I dintorni però di Campiglia e di Piombino erano coltivati con diligenza a vigna e ad oliveti, per cui il prezzo dei medesimi era identico presso a poco con eguali estensioni delle colline della vallata dell’Arno; in quella località in generale il prezzo delle colline vignate od olivate era dieci volte più alto di quello delle adiacenti pianure, mentre all’opposto, nella principale vallata della Toscana e suoi influenti, i prezzi delle colline vignate ed olivate erano quasi sempre superati da quelli di eguale estensione in pianura.
Questa differenza di resultati non passava inosservata a Giovanni Battista ed ai fratelli, mentre stavano facendo le pratiche nelle due principali città della Toscana, Pisa e Firenze. E questa considerazione fu forse cagione che più tardi mandassero ad effetto quei miglioramenti che tanto avvantaggiarono le sorti dell’avito patrimonio. Perduti verso il 1846 il fratello ed i genitori, restarono alla testa di quella vasta amministrazione Giovanni Battista e Pietro. Abbandonarono essi la carriera che si erano prescelta e si dettero con indefessa cura all’agricoltura, coll’idea di giovare a sé ed al paese. La strada Emilia, da Livorno al Chiarone, era compiuta, le opere del bonificamento della Maremma già molto avanzate; gli allivellamenti di Cecina e di Vada, se non compiuti affatto, nella massima parte iniziati, ed un moto agrario e civilizzatore già era manifesto nella provincia. Gli studi agronomici ricevevano un culto di già fra la classe intelligente del paese; ed essi ne avevano approfittato completamente. Compresero la situazione e ne aiutarono colla massima intelligenza lo sviluppo nelle varie sue fasi. L’agricoltura, come ogni altra industria, segue le vie del progresso; il capitale è il mezzo solo di accelerarne la felice riuscita. Di questo non furono giammai avari i Maruzzi e ne raccolsero il meritato guiderdone. Era per le loro proprietà tempo di variazione di sistema di cultura; essi hanno il merito d’aver ciò ben compreso e di avere accelerata questa trasformazione in modo mirabile. È innegabile che nella Italia centrale il procedimento dall’imperfetto al perfetto in agraria non tenga che la regola seguente: 1. Stadio, pascoli naturali con bestiami vaganti; 2. Terratici e culture di grano a proprio conto, con bestiami vaganti ed a sistema di riposo; 3. Lavori e a proprio conto con pascoli alternati; 4. Colonie a vasti poderi; 5. Colonie rimpiccolite con avvicendamenti in via di perfezionamento; 6. Colonie con avvicendamento perfezionato; 7. Affitti ai coloni; 8. Imprese a proprio conto, a sistema di cultura alterna perfezionata.
Il Maruzzi era pienamente convinto di ciò, e sapeva bene quale aumento graduale di rendita era proprio dei terreni, se i passaggi erano diretti ed assistiti con sistema logico. E non s’ingannava pensando che in questo risedeva tutto il difficile ed il bello al tempo stesso dell’arte nostra. Perciò con una energia tutta sua
propria, quando vedeva dei fondi che erano in qualcuno di questi stadi, e che il tempo spingeva e non vedeva curate a dovere le trasformazioni che addomandavano, gridava anatema a quel proprietario che stava neghittoso o incerto sulla via da prendere: vendete, soleva dire, piuttosto, se non volete essere schiacciati dalle ruote del carro della civiltà che avanza, e se non avete il coraggio di oprare il bene vostro e quello che la patria ha diritto di attendere da chiunque possegga terreno da coltivare.
La grande trasformazione operata dai Maruzzi fu il dissodamento dei suoi terreni pasturabili, la direzione dell’acqua nelle pianure, la ubicazione di case coloniche, la stabulazione del bestiame e la colonizzazione, l’introduzione delle praterie artificiali, la creazione di un fondo modello (Ulceratico), di oltre 200 ettari, condotto con somma diligenza a proprio conto, l’estensione grande data alla cultura della robbia in una sua tenuta.
Quali resultati abbiano conseguiti i Maruzzi dalle loro operazioni rurali è notorio nel paese nostro ed è facile immaginarlo, tutta volta si rifletta al vistoso aumento del prezzo dei terreni di quella provincia. Quando un terreno in pianura lavorativa nuda è salito in meno di dieci anni da 300 lire italiane l’ettaro ad oltre 4.000, per solo impulso di generali circostanze, si intende alla prima che quello nel quale un’industria illuminata abbia dato assistenza in questo sviluppo ha acquistato un valore molto maggiore e più sollecitamente. Ciò spieghi il perché si possa, affidando alla terra capitali, arricchire più che in ogni altro modo ed onestamente e dia ragione del cambiamento di posizione avvenuto nelle famiglie degli industriosi proprietari maremmani in quest’ ultimi tre lustri.
l Maruzzi acquistarono anche due vaste tenute, Pietra, cioè nella Comunità di Gavorrano, e Casetta di Cornia, nella pianura di questo fiume, ed in ambedue hanno eseguiti vistosi miglioramenti.
Le migliorie agrarie operate dal Maruzzi, quelle non meno belle poste in essere a Biserno dal conte Francesco Alliata-Campiglia di Pisa, furono di un grande eccitamento, perché la provincia si movesse come un sol uomo, ponendosi sulla via del progresso reale dell’agricoltura. Tale e tanta si è la industria degli abitanti di questa ricca terra di Campiglia attualmente, che l’uomo amante davvero del bene della patria non può non sentirsi commosso al veder sorgere tanti elementi di prosperità dovuti all’industria particolare. Questa terra è forse destinata col tempo a prendere il posto dell’antica Populonia, i cui ruderi melanconici sulla opposta collina di Baratti, stanno ad additare in qual grado fosse la floridezza delle spiagge maremmane sotto gli antichi nostri padri! Sono pregevolissime le estese riduzioni di terreni boscati ad oliveti fatte dal Maruzzi. Come ognun sa, lungo le coste marine, cresce in cespuglio spontaneamente l’olivo; l’isolamento di questa pianta, la distruzione di tutti i vegetabili, che frammisti ad esso vegetano spontanei, lo smovimento superficiale del suolo, la direzione dell’acque, l’innesto sono opere che in breve tempo procurano i migliori resultati. Il Maruzzi riuscì a convertire da 150 a 160 ettari di questo terreno in fertili oliveti che oggi danno largo e copioso frutto.
Ad Ulceratico, tenuta tutta riunita in un solo appezzamento, conseguì l’intento, da prima difficile, della stabulazione del bestiame, intento che poscia otteneva in tutte le di lui proprietà, e riusciva ad estendervi le praterie artificiali che erano un passo avanzato a porre quella proprietà, soppresso il maggese, a perfetta cultura alterna perfezionata.
Nella tenuta di Casetta di Cornia, continuò la cultura della robbia su larga estensione, iniziata dal sig. Aubanel, e ne ebbe felici resultati.
Nella tenuta di Pietra riuscì a stabilire la colonia e ad eseguire molte altre migliorie, fra le quali la introduzione delle praterie artificiali.
Fu più volte Gonfaloniere di Campiglia e Consigliere distrettuale e molto migliorò le condizioni materiali ed economiche del Comune affidato alle sue cure: a sua premura fu fondata una Cassa di Risparmio in Campiglia. Il governo del re fregiava il suo petto della croce di S. Maurizio e Lazzaro.
In politica fu sempre e caldamente unitario. Deputato all’Assemblea del 1859, era fra i più caldi patrocinatori dell’annessione, perché vedeva da quell’atto sparire il municipalismo e crearsi la nazione. Divoto alla monarchia di Savoia, sperò sotto di lei vedersi compiere il sospirato voto della nazione. Fu sempre largo d’eccitamenti e d’aiuti tuttavolta trattossi di generose imprese, ma non traviò dai principii. Anelante per la mossa di Garibaldi in Sicilia, nel 1862 pregò gli amici a retrocedere dopo il proclama del Bosco di Ficuzza e quello del re.
Ebbe due figlie dalla signora Deakin di Pisa, amorosa consorte che perdeva nel 1855; e dalla signora Caterina Mazzei, sposa in seconde nozze, cinque figli dei quali sono in vita tre maschi ed una femmina, affidati tutti adesso alle amorose cure della madre, dello zio Pietro, il quale, per non aver figli dalla propria consorte, Angiola Galli, ogni sua mira dirige al ben essere futuro de’ suoi nepoti, ed a continuare l’opera del fratello.
Appena che sulla ferrovia maremmana corse la prima volta il treno da Livorno a Torre San Vincenzo, mi scrisse pieno d’entusiasmo per questo fatto; ei sperava da quello e dal sistema di governo nostro il completo risorgimento della provincia, e tanto avanzava colle sue idee da ritenere che giunto il movimento ferroviario al provvisorio confine cogli Stati del papa, non fosse possibile tener disgiunta Civitavecchia dalla nostra provincia: questa strada ferrata mettendo in stretta comunicazione fra loro gli abitanti delle prode italiane sul Mediterraneo sarà il mezzo più potente a conseguire la unificazione nella parte centrale d’Italia. Né s’ingannava. Ma la fatalità non permise ch’egli assistesse a questi sicuri trionfi della civiltà, per la quale egli aveva lavorato per tutta la vita. Il di lui esempio però ebbe molti imitatori, e l’opera non rimarrà sterile, ne sono certo. Del Maruzzi non si legge che, edita nel Giornale dell’Associazionc agraria di Grosseto, una bella relazione sull’agro campigliese: sarebbe stato però un abile scrittore di cose agrarie se il tempo gli fosse stato concesso. La di lui operosità destò però l’ammirazione e l’emulazione dei concittadini che ne piansero la perdita. Egli aveva in sommo grado il tatto dell’applicazione, ed era nelle di lui imprese fortunato perché non le abbandonò mai a se stesse, ma invece le assisté d’ogni cura.
Perdendo in lui io stesso uno dei migliori amici, persi ancora chi, colla parola e coi fatti, mi fu largo di giustizia per qualche cosa da me operata in vantaggio dell’agricoltura della Maremma!»
Come abbiamo visto, i Maruzzi furono grandi innovatori e sperimentatori in ambito agricolo. Una delle colture più particolari e diversa dal solito fu quella della robbia, una pianta proveniente dal medio oriente, le cui radici furono utilizzate a lungo per estrarre un pigmento di colore rosso utilizzato per tingere le stoffe.
I Maruzzi introdussero questo tipo di coltivazione quando ormai il grosso degli affari legati alla pianta “del rosso” stavano per finire. Nel 1868 infatti il pigmento colorato fu sintetizzato artificialmente in laboratori da alcuni chimici tedeschi e questo fece crollare il mercato.
Della coltivazione della robbia, praticata dai Maruzzi sui terreni della tenuta di Casetta di Cornia, ci è rimasta una testimonianza in una pubblicazione del 1861 dove sono riportate le relazioni dei giurati dell’Esposizione italiana di prodotti agricoli tenutasi in quell’anno a Firenze.

I fratelli Giovanni Battista e Pietro Maruzzi si presentarono esponendo un «saggio di radici di robbia coltivata su ben larga scala, nei terreni di loro proprietà». All’analisi chimica il campione si rivelò contenere «poca materia colorante in confronto degli altri campioni», anche se «il risultato pratico pel coloramento delle stoffe non lascia nulla a desiderare. I giurati non poterono esimersi dal «far plauso alla lodevole operosità dei signori Maruzzi, non che all’intelligenza con cui essi presiedono e dirigono, fra molte altre, questa raccomandabile coltivazione». I bilanci attivi e passivi, esibiti alla Commissione dai fratelli Maruzzi «dimostrarono un utile netto per ogni ettaro di superficie coltivata a robbia, di lire 2.433 dopo i tre anni, tempo necessario perché la radice prenda quel diametro necessario alla concretazione della materia colorante. Essi destinano a questa coltivazione ben 50 ettari di terreno, e le condizioni del clima e del suolo assai la favoriscono, incoraggiandoli alla lodevole impresa cui siamo dolenti non sia stata accordata quella maggiore distinzione che sarebbesi meritata».
© 2016 – 2022, Valdicorniacult.it – Riproduzione riservata.